Ancora sullo “straining”
Negli ultimi anni si è assistito al progressivo riconoscimento da parte della giurisprudenza di una nuova figura di conflitto in ambito lavorativo: il cd. straining (dall’inglese to strain, forzare).
Come chiarito dalla Corte Cassazione, lo straining “altro non è se non una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’art.2087 cod. civ., norma di cui da tempo è stata fornita un’interpretazione estensiva costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt.32, 41 e 2 Cost.” (Cass. 10 luglio 2018 n. 181644 ).
La Suprema Corte ha inoltre precisato che si ha straining anche in caso di assenza di una pluralità di azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) così come in caso di assenza di prova dell’ intento persecutorio di dette azioni (Cass. 29 marzo 2018).
In sostanza lo straining indica una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, in cui il/la lavoratore/trice è vittima di un’unica azione ostile o di più azioni, ma limitate nel numero e/o distanziate nel tempo, che provocano ripercussioni negative, costanti e permanenti, sulla sua condizione lavorativa e sulla sua salute psicofisica .
Con l’ordinanza n. 2676 del 4 febbraio 2021, la Corte di Cassazione è nuovamente intervenuta in materia.
Il caso riguardava un lavoratore demansionato a seguito di riorganizzazione aziendale il quale chiedeva il riconoscimento non solo del danno patrimoniale alla professionalità ma anche del danno da straining, per la condizione lavorativa di stress che aveva subito.
La Corte ha escluso la configurabilità dello straining chiarendo che detta fattispecie “è ravvisabile allorquando il datore adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative “stressogene”, e non quando, invece, come nel caso in esame, la situazione di amarezza, determinata e inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che avevano coinvolto l’Istituto Bancario nella sua interezza».